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Abbruciamento sterpaglie e responsabilità penale dopo la conversione del c.d. «decreto crescita» (d.l. n. 91/2014, convertito con modificazioni dalla legge n 116/2014)

I recenti rimaneggiamenti normativi del legislatore romano forniscono l’occasione per riportare all’attenzione un tema tanto poco battuto in dottrina e giurisprudenza, quanto invece estremamente sentito dagli agricoltori: l’abbruciamento delle sterpaglie.

L’abbruciamento, oltre ad essere un metodo atavico di ripulitura dei terreni dalla crescita indesiderata di specie vegetali infestanti, è anche, e soprattutto, un procedimento di smaltimento delle scorie agricole estremamente rapido e dai costi risibili. Ed, a tali utilità, si assomma poi il beneficio ulteriore della possibilità di concimare naturalmente il terreno tramite la cenere che residua dal fuoco. Queste, in estrema sintesi, le ragioni della larghissima diffusione dell’abbruciamento, specie tra i piccoli e piccolissimi agricoltori e specie nelle zone meno industrializzate del Mezzogiorno.

Solo in via indiretta e del tutto incidentale la prassi in esame è venuta all’interesse del legislatore in tempi recenti, a causa della drammatica situazione della c.d. «terra dei fuochi». L’abitudine di smaltire i rifiuti (specie se urbani e/o pericolosi) con metodo fai-da-te tramite l’accensione di fuochi che facilmente divengono incontrollabili, è diventato un vero e proprio dramma per l’ambiente, la pubblica sicurezza e la salute umana in ampie zone dell’Italia. Per far fronte all’emergenza, si è quindi repentinamente introdotto, con l’art. 6, d.l. 10 dicembre 2013, n. 136, l’art. 256 bis al T.U. ambiente (d.lgs. n. 152/2006), rubricato «Combustione illecita di rifiuti». La norma, dal chiaro intento dissuasivo, prescrive sanzioni molto pesanti (reclusione da uno a cinque anni) nei confronti di chi incenerisca rifiuti di qualsiasi tipo senza le prescritte autorizzazioni.

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Giacomo Biasutti